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bullismoPiovono bulli. Improvvisamente le scuole di oggi vengono catapultate su tutti i siti di informazione a dipingere un quadro in cui pare che bullismo e violenza regnino incontrastati.

Giornalisti e opinionisti si scannano, prendendo a prestito gli episodi odierni per lanciare attacchi diretti principalmente alle famiglie dei bulli in questione, indicate come le fucine della violenza.

È davvero così?

Un paio di precisazioni appaiono necessarie.

Primo: stiamo facendo di tutta l’erba un fascio?

La violenza è violenza, su questo non ci piove. Tuttavia occorre fare una distinzione: esiste un’enorme differenza tra il prendere di mira un compagno e prendere di mira un professore.

bullismoSia da un punto di vista disciplinare che da uno clinico l’attacco ad un docente indica un livello di criticità esponenzialmente più grave. Classificare tutti come “bulli” rischia di confondere le acque in base ad un unico denominatore comune: la prepotenza, appunto, tralasciando tutto il resto.

Quando un ragazzo attacca un adulto (insegnante, controllore, poliziotto o semplice viandante) significa che ha appreso nel proprio contesto di appartenenza che esistono degli adulti che possono essere umiliati impunemente, o che l’umiliazione e la denigrazione dell’altro è una prassi impunita.

Quando un ragazzo assiste alla denigrazione o all’aggressione di un genitore ai danni dell’altro, o un nonno che attacca e umilia un genitore, è altamente probabile che finisca per attuare lo stesso comportamento a propria volta, soprattutto se in qualche modo finisce per sentirsi investito di un’autorità o uno status superiore a quello del genitore.

Come ho detto: la violenza è sempre da condannare, ma non possiamo farci accecare. Episodi di prevaricazione tra pari, per quanto gravi e drammatici possano essere, rientrano in una cornice certamente più facilmente affrontabile e con una maggiore probabilità di intevento efficace, di quando invece anche la barriera intergenerazionale è stata infranta.

bullismoUn secondo punto che diventa doveroso sollevare riguarda “i responsabili” di questa situazione.

Molti puntano il dito contro le famiglie. Ma è davvero tutta loro la responsabilità?

Posto che certamente il contesto familiare rappresenta l’humus privilegiato nel quale si forma e cresce l’individuo, al contempo credo che un serio interrogativo vada posto su un certo approccio educativo coltivato e diffuso in questi anni. È quell’approccio, spesso legittimato da uno psicologismo improprio, che tende a vedere in qualsiasi forma di disagio una valida ragione per “abbassare l’asticella”, che attribuisce al contesto ed alle istituzioni una responsabilità ed un impegno per contrastare la difficoltà e il disagio, maggiore di quella che viene richiesta al soggetto stesso.

Il proliferare di percorsi formativi “cuciti su misura per l’alunno”, nonché un fiorire di diagnosi in età evolutiva assolutamente inedito, sono un elemento del quadro educativo attuale che a mio giudizio non è estraneo al problema divenuto evidente in questi giorni.

Dentro a concetti vaghi e poliedrici come “problemi di apprendimento” e “disagio comportamentale” sono state infilate situazioni spesso totalmente dissimili tra loro, col risultato di togliere alla scuola i propri strumenti sanzionatori, o renderli insignificanti.

L’alunno che urla in faccia al professore “chi comanda qui? Mi metta 6!” mette in scena un ribaltamento dei ruoli reso possibile anche dall’idea “il mio disagio è un problema tuo, quindi è un tuo dovere risolverlo!”.

Forme più o meno esplicite di questo modo di pensare si incontrano sempre più frequentemente, attuate talvolta dagli alunni, altre volte dai loro genitori, con escalation non meno forti di quelle finite sui social in questi giorni.

Sarebbe importante cogliere la vera occasione offerta da questi episodi, che non quella di limitarsi al solito vecchio ritornello “oh tempora! Oh mores!”, ma interpellarci seriamente su quale tipo di approccio vogliamo privilegiare: se uno che distribuisce etichette passivizzanti, o uno che aiuti ciascuno a farsi carico del proprio problema e attivarsi per risolverlo.

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